Tra zelo apostolico e censura regia: il Sinodo di Squillace del 1784 e la travagliata pubblicazione degli atti

Convocato dal vescovo Nicola Notaris all’indomani del devastante terremoto del 1783, il Sinodo diocesano si svolse in un contesto di profonda crisi materiale e spirituale. La stampa degli atti, approvata solo nel 1786 dopo un serrato carteggio con l’autorità regia, subì modifiche sostanziali imposte dalle autorità dello Stato borbonico. Un episodio emblematico della tensione tra Chiesa e Stato nel Regno di Napoli nella seconda metà del Settecento.
Domenico Condito

Nel 1784 il vescovo Nicola Notaris, già titolare della sede di Umbriatico e da sei anni alla guida della Diocesi di Squillace, convocò il suo Primo Sinodo Diocesano. Fu celebrato a Squillace, martedì 29 giugno 1784, nella festa dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, nel tabernaculum ligneum eretto in luogo della Cattedrale e dell’Episcopio distrutti dal terremoto del 1783. Si trattava di una struttura temporanea in legno che fungeva da sostituto della chiesa e della sede vescovile. Il Sinodo voleva promuovere un profondo rinnovamento della Chiesa diocesana, a partire dalla vita morale e spirituale del clero, dall’attenzione verso gli infermi, i tribolati, i carcerati e i poveri, dalla rinascita della liturgia, che appariva troppo spesso sbiadita, se non addirittura compromessa da abusi, superficialità e gravi trascuratezze.
Tuttavia, la pubblicazione degli atti sinodali, avvenuta solo nel 1786 a Napoli presso la Tipografia Simoniana, fu preceduta da un intenso carteggio con le autorità civili, che ne condizionarono il contenuto. Il vescovo Notaris si trovò a dover negoziare con il potere temporale per dare alle stampe gli atti del suo Sinodo. La vicenda, documentata nei testi ufficiali e nelle approvazioni regie conservate presso la Biblioteca Nazionale e l’Archivio di Stato di Napoli, offre uno spaccato emblematico della tensione tra autonomia ecclesiastica e ingerenza statale in materia religiosa.
Il frontespizio del volume presenta le “Constitutiones Primæ Synodi Diœcesanæ Scyllacensis…” come frutto del magistero pastorale di Notaris, titolare della sede di Squillace, nonché consigliere regio “a latere”. Proprio questo titolo, che segnala l’appartenenza del vescovo al sistema patronale regio, diventò uno dei punti nevralgici nella corrispondenza tra la Delegazione della Regia Giurisdizione e l’autorità episcopale. 

  • Il contesto storico: patronato regio e controllo ecclesiastico

Nel Regno di Napoli, il sistema del Regio Exequatur imponeva che ogni atto ecclesiastico pubblico fosse sottoposto all’approvazione del sovrano. I vescovi, pur investiti di autorità religiosa e spirituale, dovevano agire come “consiglieri a latere” del re, in quanto le diocesi erano considerate sotto patronato regio. Questo sistema, formalizzato già nel Cinquecento, trovava nel Settecento una sua piena applicazione, soprattutto sotto il regno di Ferdinando IV di Borbone, che mirava a contenere l’influenza romana e a rafforzare l’autonomia ecclesiastica nazionale.

  • Le modifiche imposte dal Re Ferdinando IV di Napoli
Ritratto di re Ferdinando IV di Napoli, 
di Anton Raphael Mengs, Palazzo Reale di Madrid
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La richiesta di stampa degli atti sinodali fu accolta con favore dal Re, che li giudicò “scritti con zelo apostolico e con pietà canonica”. Tuttavia, il permesso fu subordinato a una serie di modifiche, volte a garantire che nulla negli atti potesse ledere i diritti sovrani, le leggi o le consuetudini del Regno. Le clausole imposte rivelano una volontà di controllo non solo formale, ma sostanziale, sulla disciplina ecclesiastica. Le modifiche prescritte possono essere riassunte in sei punti:

1.    titolo episcopale: il vescovo doveva assumere il titolo di “Consiliarius a latere”, proprio dei vescovi regi, per ribadire la restituzione della diocesi al patronato del sovrano, e la subordinazione dell’autorità episcopale al potere civile;
2.    giudici sinodali: dovevano essere rimossi i commissari nominati da Roma, i “Giudici Sinodali”, sostituendoli con figure riconosciute del Regno, per eliminare ogni ingerenza esterna, riaffermando la giurisdizione regia sulla disciplina ecclesiastica;
3.    formule di pene canoniche: si doveva evitare una pena indefinita con la formula “praeter punctaturam, severe mulctabitur” (oltre la puntatura, sarà severamente punito), che esprime una pena aggiuntiva e indeterminata e preferire la sola “pena della puntatura”, cioè una pena definita e non arbitraria;
4.    espressioni giuridiche: la formula “sub poena graviori” (sotto pena più grave) doveva esser sostituita con “sub poenis in jure sancitis” (sotto le pene sancite dal diritto), per uniformare il linguaggio canonico al più moderato diritto del Regno: la prima formula non specificava la pena, lasciando ampia discrezionalità al giudice ecclesiastico, mentre la seconda rimandava al diritto vigente e a sanzioni codificate;
5.    casus reservati e sanzioni ecclesiastiche: dovevano essere corretti i casi di riserva episcopale che prevedevano automaticamente la scomunica, per evitare anche qui l’automatismo punitivo, imponendo che la censura fosse dichiarata e non implicita. Pertanto, ogni pena di sospensione o scomunica doveva essere “a nobis ferenda”, cioè da comminarsi esplicitamente, evitando la scomunica latae sententiae, ritenuta “non conforme alla disciplina Evangelica, e Canonica, né alla polizia del Regno”.
6.    clausola finale di salvaguardia: si autorizzava la stampa degli atti sinodali “con le solite clausole, illesi sempre i Sovrani diritti di Sua Maestà, le Leggi e le Costumanze del Regno”.
 

Le lettere del Duca di Turitto, Carlo De Marco, datate agosto e ottobre 1785, confermano quindi l’avvenuta ricezione degli atti modificati e autorizzano la stampa, purché restino salvi i diritti della Maestà e le consuetudini regnicole. Il tono è quello di una vigilanza paterna, ma anche di una subordinazione implicita: il vescovo è chiamato a obbedire, a correggere, a pubblicare solo ciò che è stato filtrato dal potere temporale. Queste modifiche mostrano chiaramente l’intento del potere civile di vigilare sulla disciplina ecclesiastica.

  • Il giudizio teologico

Dopo le correzioni imposte dal sovrano e la concessione dell’imprimatur, gli atti sinodali furono sottoposti anche al vaglio dei revisori ecclesiastici. La relazione del teologo Aloysius de Andria († post 1786), professore di Sacra Teologia e revisore ecclesiastico del Regno di Napoli, datata 1 febbraio 1786, costituisce un documento prezioso: non solo attesta la conformità dottrinale dei decreti del Sinodo, ma ne esalta la sostanza pastorale e riformatrice. La figura di Nicola Notaris emerge come vescovo colto e prudente, più attento alla verità e all’utilità spirituale che agli ornamenti retorici. Il testo, qui tradotto dal latino, merita di essere riportato per comprendere la percezione contemporanea del magistero di Notaris. Il giudizio di Aloisius de Andria fu rimesso nelle mani di mons. Antonio Bucci, vescovo di Ortesia, sede titolare della Chiesa cattolica, e vicario generale della Diocesi di Napoli. Si riporta qui di seguito il testo della relazione:

“Con attenta meditazione del cuore, più che con rigorosa analisi della mente, ho letto con animo lieto le costituzioni del celebre Sinodo diocesano dell’Illustrissimo e Reverendissimo Signor D. Nicola de Notaris, Vescovo della Chiesa di Squillace, insieme ai testi in appendice. In essa, l’autore, eccellente per pietà e dottrina, già collega del Cardinale Sirleto e seguace delle orme di tanti suoi piissimi predecessori, si mostra amante della sostanza più che delle parole, cercando ciò che è utile piuttosto che ciò che è applaudito, preferendo non gli ornamenti del secolo, ma i benefici salutari delle cose, e scegliendo con diligenza quanto di meglio potesse contribuire all’incremento della gloria divina, attraverso la disciplina e la santità dei ministri sacri, secondo le disposizioni dei Concili.
Infatti, tenendo presente quel detto di Papa Ormisda ai vescovi di Spagna, riportato da Graziano (Can. IX, cap. XXV, quest. I):  “La prima salvezza consiste nel custodire le regole della retta fede e nel non deviare in alcun modo dalle disposizioni dei Padri”, e sapendo “quanti vi sono che ostentano l’apparenza di una disciplina più rigorosa e si compiacciono della fama di una teologia più severa” (come osserva Papa Clemente XI nella sua Lettera ai Cattolici d’Olanda), affinché sempre, come conviene, “la legge della verità sia sulle sue labbra” (Malachia II, 16), egli presta orecchio attento al principio dell’oratore romano: “Non siamo nati per il gioco e lo scherzo, ma piuttosto per la serietà e per studi più elevati”(Cicerone, De Officiis, lib I, cap. XXXIV).
Inoltre, poiché il Presule non ignorava che “la seconda qualità di un vescovo, da cui dipendono tutte le altre, è che sia ben persuaso che l’episcopato è un servizio e non un dominio, un impegno e una dedizione verso tutti coloro di cui è responsabile”, come afferma il celebre Duguet nel Traité des devoirs d’un évêque (cap. CXIV), e poiché, sebbene l’episcopato sia una buona opera, resta nondimeno un grave carico, l’Autore, meditando su questa responsabilità, ha saputo instillare, inculcare e dolcemente insegnare le sanzioni della disciplina ecclesiastica e le cose sacre proprie dell’ordine clericale, liberate da un rigore fittizio, imprimendole mirabilmente negli animi di coloro che sono stati chiamati alla sorte del Signore. Nessuno lo ignora.
Pertanto, poiché quest’opera contribuisce in sommo grado alla stabilizzazione della disciplina ecclesiastica nel suo clero, alla riforma dei costumi e alla retta condotta di vita, come si afferma anche nella conclusione della sinodo, e poiché non vi è nulla che contrasti con i dogmi della religione cattolica ortodossa né con l’onestà dei costumi, ritengo, se Vostra Eminenza vorrà benignamente concederlo, che possa essere pubblicato senza alcuna esitazione d’animo, affinché divenga di pubblico dominio e sia di beneficio alla milizia ecclesiastica.
Obbedientissimo e umilissimo servo di Vostra Eminenza, Aloysius de Andria”.


Il 21 marzo 1786 la relazione fu consegnata al vicario generale Antonio Bucci, affiancato dal canonico Giuseppe Rossi. Il giorno seguente, 22 marzo, Bucci autorizzò la stampa dell’intero corpus delle costituzioni sinodali insieme ai testi allegati in appendice.

  • Conclusione: un vescovo tra rigore e diplomazia

La pubblicazione degli atti sinodali di Squillace nel 1786 non fu solo un evento editoriale, ma il frutto di una negoziazione tra autorità religiosa e potere temporale, e mostra come, nel tardo Settecento, l’episcopato meridionale dovesse muoversi entro un delicato equilibrio tra zelo pastorale e obbedienza politica. Mons. Nicola Notaris, pur costretto a subire le ingerenze dell’autorità regia, riuscì a mantenere intatta la sostanza della sua riforma, offrendo alla Diocesi di Squillace un documento di grande valore pastorale e teologico. La sua figura emerge come quella di un pastore colto, prudente e fedele, capace di navigare tra le esigenze del Regno e le istanze della Chiesa, incarnando quel modello di episcopato come “servitù” che la tradizione cattolica più autentica ha sempre promosso. In una fase storica di grave abbattimento materiale e spirituale, la sua parola si accendeva come fuoco, soprattutto quando si rivolgeva ai suoi sacerdoti esortandoli alla santità della loro missione: 

“Siam Noi successori de’ Santi Apostoli, Voi degli altri discepoli. (...) Sacri Ministri, ve lo ripeto: sovvengavi che le Chiese da voi governate le avete in luogo di spose, l’onore e la leggiadria delle quali tocca a voi difendere anche col sangue: Sponsi sanguine effuso sponsa appellatur. (…) Non vi lusingate, o dilettissimi, di adempiere al vostro dovere con le invettive da sopra l’altare. Vostro modello è Gesù Cristo, il quale non solamente predicò ed ammonì parlando a tutti, ma ricercò ad una ad una le pecorelle perdute della casa d’Israele, chiamandole per nome dai teloni, facendole scendere dai sicomori, aspettandole presso i pozzi, santificandole fin nei conviti; e per così ricercarle soffrì fame, sete, caldo, freddo, contraddizioni, calunnie, e per ultimo diede il proprio sangue per esse: non solum sanguinem sudit, sed pro ovibus fudit. (…) Ed in ciò mostrare dovete quell’amore, usare quella cura, prestare quell’opera che pastori vi dimostri, non mercenari, ma pastori buoni”.

Questo contributo rappresenta soltanto la prima tappa di un percorso di ricerca dedicato all’insigne vescovo Nicola Notaris e al suo Sinodo diocesano. Altri articoli di approfondimento saranno dedicati a questi temi, con l’intento di restituire alla memoria storica collettiva la ricchezza di questa straordinaria esperienza pastorale e riformatrice. Si tratta di lavori preparatori che confluiranno in una futura edizione critica degli atti sinodali, volta a offrire agli studiosi e ai lettori un testo rigoroso, corredato da apparato e note esplicative, capace di illuminare una pagina significativa della storia ecclesiastica calabrese.

La Cattedrale di Squillace fatta ricostruire dal vescovo mons. Nicola Notaris
dopo il devastante terremto del 1783

 

 


 

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