Roberto Bellarmino e il processo a Giordano Bruno: verità storica contro propaganda ideologica
In un Paese dove le parole prevaricano spesso il pensiero critico, la figura del cardinale Bellarmino è stata trasformata in simbolo di fanatismo inquisitoriale. Ma gli studi di Luigi Firpo, storico laico e rigoroso, smontano questa narrazione e restituiscono complessità e verità a una vicenda troppo spesso semplificata. Tra documenti d’archivio e analisi puntuali, emerge un quadro ben diverso da quello tramandato dal pregiudizio anticlericale.
Domenico Condito 
|  | 
| Il cardinale Roberto Bellarmino, Santo e Dottore della Chiesa, in una incisione del 1721. | 
L’Italia è un Paese dove si parla molto e si studia poco. Un terreno ideale per la diffusione di fake news, leggende metropolitane e teorie complottistiche. Si tratta comunque di un vizio antico, che in passato ha alimentato delle vere e proprie leggende nere. Una di queste riguarda il ruolo svolto dal cardinale Roberto Bellarmino nel processo a Giordano Bruno. Nell’immaginario collettivo, il santo e dottore della Chiesa si è trasformato nel crudele e famigerato inquisitore che ha mandato al rogo il filosofo nolano. Ma le cose stanno veramente così? 
Luigi Firpo, insigne figura di storico, scomparso nel 1989, ha dedicato diversi anni di ricerca alla ricostruzione organica dell’intera vicenda processuale che portò alla condanna di Bruno. Un meticoloso lavoro basato sull’esame rigoroso di tutti i documenti disponibili, di cui ha favorito anche un recupero sistematico, con integrazioni fondamentali da lui stesso individuati nell’archivio dell’Inquisizione romana. Ne pubblicò i risultati nel celebre studio Il processo di Giordano Bruno, pubblicato in due puntate sulla Rivista Storica Italiana fra il 1948 ed il 1949, e ristampato postumo con ampie integrazioni dalla Salerno Editrice nel 1998. Aggiungo che Luigi Firpo era anche un laico militante, radicale ed estremo, il cui ultimo scritto fu una spietata requisitoria contro “le favole della religione”, pubblicata all’epoca sul quotidiano La Stampa. 
Nel volume citato, Firpo, da studioso rigoroso, chiarisce quale fu l’effettivo ruolo svolto dal cardinale Bellarmino nel processo per eresia contro Giordano Bruno, smontando leggende e luoghi comuni. Val la pena di rileggerlo:
 
Nel volume citato, Firpo, da studioso rigoroso, chiarisce quale fu l’effettivo ruolo svolto dal cardinale Bellarmino nel processo per eresia contro Giordano Bruno, smontando leggende e luoghi comuni. Val la pena di rileggerlo:
«… un passo decisivo per la spedizione della causa fu compiuto il 12 gennaio 1599 per iniziativa del più autorevole dei teologi consultori del S. Uffizio, il celebrato autore delle “Controversie”, Roberto Bellarmino; egli propose infatti che, superata la fase delle prove legali e delle contestazioni, si sottoponesse all’inquisito un elenco di proposizioni sicuramente erronee, estratte dal processo ma formulate dai giudici in termini inequivocabili, invitandolo a riconoscerne l’eterodossia e a dichiararsi pronto a abiurarle. L’intento era in sostanza quello di far rinnovare al Bruno la professione di obbedienza recitata a Venezia con tanta prontezza, ma che si voleva sentir reiterare dopo il gran tempo trascorso e i palesi segni di ostinazione mostrati nel XVIII costituto. Due giorni dopo, le proposizioni eretiche, estratte in numero di otto dal processo e dai libri (cioè dalle censure) per cura del Tragagliolo e dal Bellarmino, furono lette in seno alla Congregazione, che approvò la scelta e ordinò che ne fosse data copia al Bruno; la sua risposta avrebbe avuto valore decisivo nella risoluzione della causa, poiché, non essendo egli “relapsus”, l’impenitenza lo votava a quella morte certa, che l’abiura escludeva in modo altrettanto sicuro: le otto proposizioni significavano l’aut aut fra il rogo e una detenzione di non molti anni. Si badi tuttavia che la prova sarebbe stata conclusiva solo in caso di rifiuto, perché nelle proposizioni non si esauriva la materia del processo e, accertata che fosse la buona disposizione dell’inquisito, assai più copiosi argomenti avrebbero intessuto il resto dell’abiura definitiva. Ciò risulta palese dal fatto che nella stessa seduta del 14 gennaio si ordinava di prendere in esame le altre proposizioni eretiche del processo e dei libri e giova a sminuire il nostro rammarico per la perdita del testo integrale delle otto proposizioni, delle quali, come si vedrà, una soltanto ci è nota in modo sicuro.
Se l’importanza risolutiva di quell’elenco è stata esagerata, una specie di leggenda circonda addirittura l’intervento del Bellarmino, che, sulla traccia d’una voce diffusa a Roma la tempo della condanna, fu dalla storiografia ottocentesca assunto a simbolo della reazione intransigente e fanatica contro l’araldo dei nuovi tempi: ampiamente sfruttato da Berti, il motivo ricorre nello Spampinato e fin nelle successive pagine del Mondolfo, senza che nessuno si sia curato di render ragione a un apologeta del santo Cardinale, che aveva giustamente rilevata la data assai tarda del suo ingresso nella Congregazione rispetto alla lunga vicenda del processo bruniano. Giuseppe Viganesi, un teste del processo di beatificazione del Bellarmino, che depose a Montepulciano nel 1627, riferì di aver visto due volte soltanto offuscata la suprema imperturbabilità del Santo, la prima apprendendo la morte in stato di concubinaggio d’un gentiluomo concittadino, la seconda nel vedere un condannato del S. Uffizio morire impenitente; se è tutt’altro che certo che la commozione del Santo fosse provocata dalla tragica fine del Bruno (perché non da quella di fra Celestino?), certo si è per contro ch’egli intervenne in processo quando gli interrogatori e le censure erano ormai cosa fatta.»
Afferma ancora il Firpo che il 24 agosto 1599 «il Bellarmino riferì alla Congregazione circa il contenuto della scrittura presentata nel corso della visita e relativa alle otto proposizioni abiurande, accertando che il riconoscimento dei proprii errori appariva “clare” in tutto l’autografo bruniano e che solo in due punti si ravvisava una reticenza o esitazione (“videtur aliquid, si melius se declararet”)».
Se l’importanza risolutiva di quell’elenco è stata esagerata, una specie di leggenda circonda addirittura l’intervento del Bellarmino, che, sulla traccia d’una voce diffusa a Roma la tempo della condanna, fu dalla storiografia ottocentesca assunto a simbolo della reazione intransigente e fanatica contro l’araldo dei nuovi tempi: ampiamente sfruttato da Berti, il motivo ricorre nello Spampinato e fin nelle successive pagine del Mondolfo, senza che nessuno si sia curato di render ragione a un apologeta del santo Cardinale, che aveva giustamente rilevata la data assai tarda del suo ingresso nella Congregazione rispetto alla lunga vicenda del processo bruniano. Giuseppe Viganesi, un teste del processo di beatificazione del Bellarmino, che depose a Montepulciano nel 1627, riferì di aver visto due volte soltanto offuscata la suprema imperturbabilità del Santo, la prima apprendendo la morte in stato di concubinaggio d’un gentiluomo concittadino, la seconda nel vedere un condannato del S. Uffizio morire impenitente; se è tutt’altro che certo che la commozione del Santo fosse provocata dalla tragica fine del Bruno (perché non da quella di fra Celestino?), certo si è per contro ch’egli intervenne in processo quando gli interrogatori e le censure erano ormai cosa fatta.»
Afferma ancora il Firpo che il 24 agosto 1599 «il Bellarmino riferì alla Congregazione circa il contenuto della scrittura presentata nel corso della visita e relativa alle otto proposizioni abiurande, accertando che il riconoscimento dei proprii errori appariva “clare” in tutto l’autografo bruniano e che solo in due punti si ravvisava una reticenza o esitazione (“videtur aliquid, si melius se declararet”)».
Leggendo Firpo, se ne deduce che il Bellarmino non fornì alcun elemento per favorire la condanna del filosofo nolano. Al contrario, il Cardinale affermò che Giordano Bruno aveva riconosciuto il proprio errore su sei delle otto proposizioni contestategli come eretiche. Mentre per le altre due la sua posizione non risultava abbastanza chiara, ed era necessario un approfondimento. Questo giudizio non era sufficiente per emettere un verdetto di condanna, e molto probabilmente mirava a salvare la vita a Bruno. Questi sono i fatti ricostruiti da Luigi Firpo attraverso l’esame scientifico delle fonti. Tutto il resto è laicismo facile prêt-à-porter, da indossare all’occorrenza in omaggio al più servile politically correct.
|  | 
| Antiporta e frontespizio della monumentale edizione praghese delle Controversie di Roberto Bellarmino (Disputationum Roberti Bellarmini e Societate Jesu S.R.E. Cardinalis, De Controversiis Christianae Fidei, Adversus Hujus Temporis Haereticos), pubblicata in quattro volumi in folio da Joannis Vitzk nel 1721. | 

Commenti
Posta un commento