Zygmunt Bauman - Le sorgenti del male
A cura di Yong-June Park - Erickson
Che cos’è il male oggi? In che modo si può dire che le sue manifestazioni, le sue spinte, le sue modalità di aggredire il tessuto del mondo e delle persone che lo abitano si siano modificate?
Zygmunt Bauman, uno dei più grandi pensatori viventi, già nel 1989, con Modernità e olocausto, aveva riletto le atrocità del Terzo Reich sovvertendo l’opinione comune che si fosse trattato un « incidente » della Storia e dimostrando che invece la « società dei giardinieri » della modernità aveva raggiunto con l’olocausto il suo risultato più esemplare. In questo libro Bauman compie un ulteriore decisivo passo avanti nell’identificazione del « male » ai giorni nostri. E lo fa con una ricognizione delle tesi fallaci che si erano affermate nel Novecento (dalla « personalità autoritaria » di Adorno alla « banalità del male » di Hannah Arendt) per mostrare poi, in un corpo a corpo con le opere di Jonathan Littell e di Günther Anders, che la presa di distanza dagli esiti dei nostri atti distruttivi (resa non solo possibile, ma obbligata, dalle mirabilia tecnologiche e dalla costrizione « diversamente morale » a non sprecare armi la cui produzione ha richiesto quantità esorbitanti di denaro) contribuisce a erodere la nostra sensibilità già gravemente indebolita, malcerta, afona.
Estratto dal volume (pp. 93-94):
"Le atrocità, in altre parole, non si autocondannano e non si autodistruggono. Al contrario, si autoproducono: ciò che una volta era un inatteso terrificante scherzo del destino e un trauma (una scoperta orribile, una rivelazione raccapricciante) degenera in un riflesso condizionato di routine. Hiroshima fu un trauma dagli echi assordantemente alti e apparentemente inestinguibili. Ma solo tre giorni più tardi, Nagasaki fu a malapena un trauma, che produsse pochi echi, seppure ne produsse. Joseph Roth ha indicato uno dei meccanismi dell'abituazione desensibilizzante:
Quando si verifica una catastrofe, le persone vicine vengono traumatizzate fino a provare un senso di impotenza. Per certo le catastrofi producono tale effetto. Sembra che ci si aspetti che le catastrofi abbiano breve durata. Ma le catastrofi croniche sono così spiacevoli per i vicini che quest'ultimi gradualmente diventano indifferenti sia alle catastrofi, sia alle loro vittime, quando non sviluppano in proposito una vera e propria impazienza... Quando l'emergenza si protrae troppo a lungo, le mani che si protendevano a offrire aiuto tornano a infilarsi nelle tasche, i falò della compassione si spengono.
In altre parole, una catastrofe che duri a lungo traccia il solco della propria perpetuazione consegnando il trauma iniziale e la violenza all'oblio, indebolendo e appannando la solidarietà umana con le sue vittime, minando così la possbilità di unire le forze nel tentativo di allontanare vittimizzazioni future."Leggi l'indice e il capitolo 5 ("La banalità del male")
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